Interviste

Andrea Pedrinelli, critico musicale... e non solo!

Andrea racconta la musica, la storia delle canzoni e la vita di chi le scrive o interpreta!

Intervista realizzata nel 2022 da con l'aiuto dei frequentatori del Gomitolo

Andrea Pedrinelli è un giornalista-scrittore, critico musicale, storico della canzone, divulgatore. Ha scritto biografie di cantanti e gruppi che hanno fatto la storia della musica italiana. Ha raccontato anche le perle nascoste di cantanti noti e meno noti.

Ciao Andrea! In cosa consiste il tuo lavoro?

Attualmente è soprattutto un lavoro di studio e ricerca sulla storia della canzone italiana e i suoi personaggi, mirato alla realizzazione di nuove opere editoriali, libri e magari anche altro, tipo prodotti video. Ho un vasto archivio di dischi, articoli, volumi, materiali digitali, che aggiorno e approfondisco di continuo. Ormai è tramontato il tempo delle recensioni di dischi nuovi, perché non ci sono più spazi sui media per farlo, e così mi sono concentrato sul lato saggistico e storico della mia attività abbandonando la cronaca musicale del presente. Del resto, questo lato del mio mestiere di critico e storico è anche quello che per indole amo di più.

Mi piacerebbe anche riprendere a creare e partecipare ad eventi di divulgazione anche in giro per il Paese, sempre sulla canzone italiana, ma il Covid ha bloccato tutto: e ancora è difficile pensare di programmare un'attività di questo tipo, che per il momento svolgo dunque solo saltuariamente, quando riesco a presentare qualche mio libro invitato da qualche parte.

Cosa fa un critico musicale?

Ascolta e valuta la produzione musicale che gli capita fra le mani, per lo più specializzandosi in un genere (classica, jazz, pop-rock, mainstream...). Ovviamente per svolgere bene il proprio mestiere deve aver studiato, cioè conoscere la musica e la sua storia, e avere anche passione, secondo me, per ascoltare con curiosità qualunque cosa e saper affrontare -anche solo per doverosa conoscenza- pure parti del mondo musicale che non corrispondono ai suoi gusti.

Sul piano strettamente pratico, io di solito ascolto un disco più volte prima di recensirlo, prendo sempre molti appunti anche ai concerti, e le interviste le preparo ripassando l'intera carriera e l'intero pensiero dell'artista che devo incontrare, se in promozione di un disco nuovo anche, ovviamente, analizzando con attenzione traccia per traccia ogni dettaglio del suo nuovo progetto.

Che differenza c'è fra andare a un concerto da spettatore comune oppure da giornalista?

In realtà, quando diventi professionista, cambia tutto come impostazione della tua mente (o almeno dovrebbe...) Nel senso che ti abitui ad analizzare attentamente quanto vedi e ascolti, impari molti segreti e dettagli del mondo del live, e in pratica non puoi più andare a nessun concerto senza iniziare, anche inconsciamente, a prendere appunti e valutare quanto vedi.

È forse il lato più "pesante" e meno noto di questo mestiere, perdi del tutto l'approccio spontaneo e di relax di uno spettacolo dal vivo.

Altro piccolo inconveniente del mestiere è che sei sempre "acceso", perché la musica non è un bilancio che puoi chiudere al venerdì e riprendere il lunedì mattina, di continuo hai stimoli, idee, ascolti o vedi cose che ti fanno prendere appunti o mettere in moto il meccanismo della riflessione critica, e magari ti danno il La per nuovi scritti.

Come mai hai scelto di fare questo lavoro e come sei arrivato fin qui?

Fin da bambino avevo l'idea di fare il giornalista, e subito dopo il liceo ho avuto l'occasione di iniziare con piccole testate di quartiere: scegliendo subito, per istinto, il mondo dello spettacolo (a lungo ho fatto anche critica teatrale).

Poi ho scelto subito anche di essere un freelance, cioè di specializzarmi nel settore e di rimanere libero, con tutti i pro e i contro del caso: i pro sono che non ti spostano da un giorno all'altro dalla musica all'economia, e che ti organizzi tu il tuo mondo lavorativo, non hai orari d'ufficio; i contro sono che ovviamente devi inventarti come guadagnarti da vivere perché non hai un posto fisso, né ferie né malattie pagate, né una testata che ti introduce a un artista o un ambiente, devi lavorare con la tua personale credibilità e costruirla nel tempo è faticoso.

Però sono appunto scelte, e io sono molto felice che questa scelta e la mia lunghissima, inevitabile gavetta mi abbia portato ad avere -grazie all'esperienza, alla competenza e credo anche alla gentilezza del pormi- una solida reputazione da critico e la possibilità di scrivere non solo libri importanti, ma soprattutto i libri "di riferimento" per conoscere Gaber, Jannacci, Zero, Vasco, i Pooh.

Conosci tantissimi cantanti! Com'è conoscere le persone famose e avere a che fare con loro?

Le prime volte c'è molto timore. Poi in realtà capisci che sono persone normalissime. E soprattutto, che gli artisti "veri" sono sempre gentili e disponibili, quelli cafoni non sono "veri" artisti, e che un artista è anche molto fragile. Perché essere artisti implica una sensibilità particolare, e a volte anche l'incapacità di vivere una realtà quotidiana "normale": sono sempre presi dal loro sogno interiore, e dunque spesso hanno ansie, dubbi, insicurezze che non ci si immagina dall'esterno.

Senza violare la privacy di nessuno, c'è qualche curiosità o aneddoto che puoi raccontarci?

Umanamente parlando, Claudio Baglioni è molto timido, e non si direbbe. Franco Battiato era molto spiritoso, e quando capiva che capivi ti regalava giudizi taglienti facendo finta di niente. Enzo Jannacci era una persona buonissima, che alzava barriere per timidezza ma se capiva che eri una persona seria si apriva con la bontà e l'entusiasmo di un bambino. Roby Facchinetti è una delle persone più pure e generose che conosca. Enrico Ruggeri è la persona più intelligente, coraggiosa, lucida che abbia mai incontrato. Mango era un amico, un artista splendido, una persona bellissima. Stefano D'Orazio era un uomo di una visione pazzesca, capace di capire dove andava la musica e dove andava il mercato.

Certo, ci sono anche personaggi famosi che sono "finti", che sono presuntuosi, che mettono barriere credendosi degli dei, ma non vi farò i nomi. Invece vi dico che spesso mi è capitato di sentirmi mettere sull'avviso: attento che quello è un maleducato, ti manda al diavolo, ti chiude il telefono in faccia. E invece ho creato rapporti splendidi, profondi, con personaggi presentati così; ho fatto interviste in cui mi hanno svelato dettagli della loro vita privata, di lutti personali, e della loro visione dell'arte che non avevano mai detto a nessuno. Mi è capitato con Gino Paoli, Amedeo Minghi, Angelo Branduardi, anche Enrico Montesano. Perché? Semplicemente, perché li approcciavo con rispetto e loro capivano che avevo "studiato" -e apprezzato- il loro lavoro...

Curiosità: gli stranieri sono di solito molto più alla mano, e così i jazzisti. Ho bellissimi ricordi di chiacchierate telefoniche, di persona o via Skype con gente del calibro di Sting, Elvis Costello, Billy Cobham, la deliziosa Dolores O'Riordan dei Cranberries, Noa, Franco Cerri, Ian Gillan dei Deep Purple, Enrico Rava, Chris Rea... Hanno un modo completamente diverso, e più naturale, di porsi. Ed anche in quel caso, comunque, con Laurie Anderson e Patti Smith mi è capitato tal quale che con Paoli o Branduardi. Attento che sono "cattive", e invece si divertivano alle mie domande indagatorie ma professionali.

Cosa pensi della musica di oggi? Rap, trap, ecc...

Dunque, per me vale una frase del grande Duke Ellington che dovrebbe valere per tutti. Perché non c'è musica vecchia o giovane, non c'è uno stile di serie A e uno di serie B. Per Ellington "Esistono solo due generi di musica: quella bella e quella brutta". Quindi anche nella musica classica puoi incontrare pagine modeste, e anche nel rap e nella trap ci sono capolavori.

Io in realtà seguo molto la canzone italiana, e poi anche il jazz e il pop-rock anglofono; non sono quindi molto pratico di rap e trap. Sulla trap posso dire che la conosco anzi pochissimo, del resto non si può conoscere tutto, quindi non capisco bene il suo linguaggio; posso solo dirti che per il mio gusto quello che sento non è granché, di quel mondo.

Sul rap invece condivido il pensiero di Gino Paoli: è un mondo americano, un modo di esprimersi che è naturale per gli afroamericani, soprattutto: dunque il rap USA è qualcosa di inevitabilmente più profondo e "vero" di un rap italiano o francese... E infatti credo che Kendrick Lamar sia un grandissimo autore e interprete, e possiedo diversi dischi rap USA che trovo notevolissimi.

In Italia il rap è inevitabilmente qualcosa di posticcio, non è il nostro mondo, non è il nostro modo naturale di esprimerci, non fa parte della nostra cultura: e credo sia per questo che molto rap sembra buttato lì, o costruito per ammiccare superficialmente a chi non ha grande cultura musicale, anche solo per una giovane età.

Detto questo, però, ci sono artisti italiani che hanno scritto o scrivono cose molto interessanti, certo per la mia formazione più testualmente che musicalmente: però per esempio Caparezza lo trovo molto valido e profondo, e un gruppo come gli 'A67 che mesce rock alternativo e rap, partendo dalla necessità di comunicare e capire un mondo popolare complesso come quello di Scampia, fa secondo me dischi eccellenti.

Ci sono qua e là folgoranti analisi anche in cose degli Articolo 31, peraltro. E poi ricordo una definizione di Giorgio Gaber molto bella e giusta, a mio avviso: un cantautore è colui che possiede un mondo interiore compiuto. Ecco, molta musica giovane di oggi manca di questo mondo, che non è certo facile da costruirsi e che però gli artisti spesso hanno dentro fin da piccoli: e in questo senso guardo con interesse ad Achille Lauro, che oltre il modo di porsi e vestirsi secondo me ha una poetica sua, che svilupperà meglio, e che però a questo punto della sua carriera mi ricorda il primo Vasco o il primo Zero, che ho studiato molto bene, e che non erano visti in modo tanto diverso da come viene visto Lauro, ai loro esordi.

E lo stesso vale per i Maneskin, i quali fra l'altro hanno fatto gavetta e si vede, sanno suonare e hanno personalità da palcoscenico: per ora non fanno a mio avviso gran musica, sono giovanissimi, però è musica loro, ha un senso compiuto, un linguaggio preciso. Altri invece, pur famosi, a mio avviso il mondo non ce l'hanno, e fanno cose senza sugo e senza futuro: gente da Ermal Meta a Marco Mengoni, la Amoroso, Mahmood... Non solo e per forza rapper e trapper.

E dei talent show? Sono davvero la strada per diventare famosi? Consiglieresti a un ragazzo di partecipare?

Per diventare famosi sì. Per un anno. Poi si viene buttati via come roba vecchia. No, non consiglierei mai a un ragazzo di partecipare, salvo sia uno che ha già forte personalità e un mondo definito, e che possa dunque sfruttare proprio la popolarità che acquisirebbe in Tv, sapendo però che comunque poi dovrebbe rendersi indipendente dalle imposizioni della stessa Tv e delle (deprimenti) case discografiche italiane per poter andare avanti. Quello che fanno i Maneskin, del resto, che hanno imposto il loro mondo, sfruttato l'occasione della visibilità, e ora vanno avanti per la loro strada: grazie anche al successo estero, però, che ha premiato la loro proposta e non è affatto scontato che accada a tanti.

I talent hanno rovinato la musica, e non solo: fanno passare l'idea che tutto sia facile, che tutto sia immediato, sottolineano competitività e ambizione, non permettono ai ragazzi né di esprimersi per quello che sono, né di lavorare sul loro talento personale, né tantomeno di fare reale esperienza di cosa significhi cantare davanti a un pubblico, comporre, proporsi con una propria cifra espressiva e umana.

Prima dei talent, c'erano i produttori -quelli veri: che giravano nei locali dove i ragazzi si facevano le ossa suonando davvero e capendo come interagire col pubblico (nonché superando critiche, sputi, contestazioni, derisioni), e scorgevano in loro talenti specifici. Perché Jannacci fu scelto in quanto "diverso", "nuovo", da quanto andava di moda ai suoi tempi, non perché poteva essere "un altro Modugno" o "un altro Claudio Villa"; e lo stesso per De André, o Carmen Consoli, o Concato. Poi i produttori investivano per far sì che il ragazzo sviluppasse il suo talento, il suo mondo: e a volte ci volevano tanti dischi, tanti investimenti, tanti anni di insuccessi per riuscire a far sbocciare il talento o a convincere il pubblico.
Guardate quanto ci hanno messo Mango o Dalla a sfondare, quanti dischi invenduti prima; quanti anni di teatri vuoti per Gaber, col Piccolo Teatro di Milano a ripianare i debiti, prima del boom; quanti anni senza guadagni hanno vissuto i Pooh prima che Giancarlo Lucariello li spingesse a sviluppare un linguaggio che fosse davvero loro, unico, nuovo, inimitabile, e dunque non uno scimmiottamento del Beat bensì un pop sinfonico italiano e inedito.

Oggi la Tv, che insegue l'audience, e le discografiche, che inseguono il guadagno immediato, prendono i talenti, li mettono in competizione, ne fanno delle "maschere" e dei "personaggi" lontanissimi dal centro della persona che i ragazzi sono, non gli permettono di incidere quello che scrivono e sentono dentro, gli impongono di incidere invece canzonette "che funzionano" scritte da autori -sempre gli stessi, per tutti!- sotto contratto con loro, così i discografici e la Tv guadagnano anche sulla Siae, ...insomma li sfruttano spremendoli come limoni per due-tre anni e poi ...li lasciano perdere, perché fanno più audience e interesse dei volti nuovi, che si avvicendano a loro in questa che qualcuno ha definito correttamente una fabbrica di falliti.

Perché poi, quando Tv e major ti lasciano, cos'hai in mano? Non un mondo, che non ti hanno fatto sviluppare; non un repertorio, perché ti hanno fatto incidere canzonette da classifica senza personalità precisa, con hit -se ci sono- scritte a tavolino apposta per piacere qui e ora e dunque destinate a non durare nel tempo; e nemmeno un mestiere, perché semmai hai imparato a mascherarti, a fare il "personaggio", e non hai fatto nemmeno gavetta nel suonare live -e quanti tour fallimentari, quanta incapacità di cantare intonati e tenere il palco si vedono in giro...
Così dovresti, se ne hai la forza economica di tuo, perché non guadagni neppure tanto, visto che si prendono pure i diritti d'autore del tuo disco, con quel meccanismo, dovresti ripartire da zero: forse con un po' di pubblico, sempre però che quel pubblico non ti seguisse solo perché eri un "personaggio"...

Decisamente, direi che i talent dovrebbero chiudere (o cambiare, ma temo sia impossibile) per sperare in nuova musica. E ci vorrebbero anche diversi discografici, però...

E quindi secondo te quale percorso deve fare chi vuole diventare un cantante e magari avere un po' di successo? (Per i lavori "comuni" bisogna studiare ma anche fare esperienza diretta, a volte è bene fare corsi altre volte è meglio fare una università... per fare il cantante invece su cosa puntare?)

Un artista deve studiare, canto e composizione, almeno delle basi; deve sapere che musica c'è stata nella storia, e anche essere curioso e attento alle novità; deve lavorare a fondo su sé stesso per crearsi un mondo, o capire come esprimerlo, in sincerità e naturalezza però, senza sovrastrutture. E soprattutto dovrebbe fare tanta gavetta, suonare dal vivo, confrontarsi con la gente. Credo soprattutto che un vero artista abbia come obiettivo principale esprimersi; se metti il successo o peggio ancora la popolarità al primo posto, forse non sei un artista.

Anche perché se davvero hai qualcosa dentro, e sai esprimerlo in originalità, prima o poi arriverai, la gente capisce sincerità e qualità: per quanto il successo segua traiettorie che in realtà non si possono programmare sempre a tavolino, quindi occorre anche un po' di buona sorte, e comunque sapere che se programmi troppo, la gente si accorge che sei "falso".

Quindi meglio avere pazienza, e insistere sulla propria verità. Magari, chissà, con un produttore che ti apprezzi e ti aiuti a tirare fuori il tuo centro: ma investendo su di te, aiutandoti a confezionare sviluppare pubblicare le tue idee, non facendoti pagare per incidere né dicendoti lui cose o come dovresti cantare (attenti ragazzi, ci sono tanti Gatti e Volpe in giro...).

Quali sono i libri che hai scritto a cui sei più legato?

Te ne cito tre.

  • Roba minima (mica tanto), tutte le canzoni di Enzo Jannacci, perché Enzo è il mio punto di riferimento anche etico, non solo poetico, e scrivere di lui, con il suo benestare, mi ha donato un viaggio in un universo di valori forti e poesia immensa.
  • Canzoni da leggere, perché credo ci sia tanto di bello nella nostra canzone italiana, e mi è piaciuto scoprire e far scoprire testi, ragionamenti, denunce, poesie che si conoscono meno e che però dimostrano quanto sia forte la forma-canzone, e quanto sia fondamentale per la cultura italiana. In quel libro "leggo" canzoni dagli anni Trenta del Novecento al rap, e credo sia venuta fuori una bella antologia senza distinzioni di genere per capire, imparare, commuoversi con la bellezza della canzone.
  • Il grande libro dei Pooh, perché i Pooh sono stati la mia vita, in tanti sensi, e anche umanamente sono molto legato a loro. Sognavo da quindicenne di scrivere la loro storia, ci sono riuscito in modo inaspettato ora, addirittura con il dono da parte loro della dicitura "Libro ufficiale", e quindi questo volume rimarrà per me un sogno che è diventato realtà concreta, a prescindere dalla profondità e dalla fatica del lavoro fatto. Oltretutto ci tenevo a celebrarli in un'Italia che guarda troppo all'estero e spesso snobba i cantanti "popolari", e credo di esserci riuscito, grazie anche alla credibilità conquistata da biografo di Gaber e Jannacci.
Il tuo ultimo libro parla dei Pooh, un gruppo che si è formato nel 1966. Perché un bambino o un ragazzo dovrebbe ascoltarli oggi?

Per prendere appunti. Nel senso che i Pooh sono riusciti ad arrivare al successo e a mantenerlo per cinquant'anni grazie ai loro talenti, certo, e al fatto che avevano un mondo musicale e poetico personale, originale, unico. Però hanno anche dovuto e saputo abbinare al talento un lavoro continuo, un sacrificarsi come singoli per il progetto collettivo, tanti e tanti valori non sempre scontati né facili da mettere in pratica (dalla disponibilità con fan e stampa all'umiltà di fare un passo indietro nel riconoscimento dei meriti singoli), e insomma c'è stato alla base della loro storia un sacrificio continuo nel "fare i Pooh" e far andare la "macchina della musica" -che dava da mangiare anche a tantissime persone, fra l'altro- lavorando 365 giorni l'anno per cinquant'anni.

Io credo che se un aspirante musicista leggesse questo libro non per fare musica come la loro, ma per appuntarsi le loro "regole", i loro sacrifici, quanto va messo dietro un talento, avrebbe un manuale molto più utile di un talent show per capire come lavorare, per provare anche lui o lei a far conoscere la propria idea musicale e poi a tenerla viva nel tempo.

Ovviamente, poi, i Pooh sono un'eccellenza della nostra canzone: e studiarli, e farsi emozionare dalle loro perle, serve a chi vuole fare il musicista e fa bene a tutti, come studiare ogni grande.

Progetti futuri?

Proprio perché il libro sui Pooh è stato un lavoro immenso con un coinvolgimento anche mentale ed emotivo pesantissimo, al momento sto pensando come ripartire.

Il giornalismo ahimè è finito nella sua forma tradizionale, anche perché io appunto non seguo la "nuova" musica ma preferisco studiare la storia, e dunque in attesa di poter riprendere qualche incontro culturale-divulgativo sto meditando su altre biografie, ho un paio di personaggi che voglio analizzare ancora. C'è anche un progetto di libro che porti la grandezza della musica italiana ai piccoli, e vedremo che tempi avrà.

Oggi come oggi però l'unica certezza, con orgoglio, è il piccolo podcast "Canzoni da raccontare" che l'emittente radio "RTR 99-Canzoni e parole fuori dal coro" ha voluto che facessi per loro, raccontando due canzoni particolari della storia della musica italiana a settimana, con lo stile del libro Canzoni da leggere, e questo è un podcast che mi piace sempre pensare, registrare e poi sentire sui loro canali, radio e web, al lunedì e al venerdì.

Oltre a bambini e ragazzi ci leggono molti genitori e insegnanti. C'è qualcosa che vorresti dire loro?

Non sottovalutate mai la capacità, innata nei ragazzi, di capire il bello. Nel mio campo, ho appreso molto dagli incontri con le scuole, dove faccio vedere e sentire canzoni importanti di grandi della musica italiana, seguendo vari percorsi che si possono anche concordare, e che spero magari avrete voglia di conoscere o, chissà, di ospitare.

A volte, in quei contesti, gli adulti mi ricordano che i ragazzi conoscono appunto i talent e la trap, e dunque si mostrano scettici sulle mie scalette di brani. Poi però è capitato che mi abbiano imposto di far dare i voti ai ragazzi a ogni canzone proposta, come fossero giudici di talent (sic), e i voti siano stati Jovanotti 4, 4, 4, Bruno Lauzi 8, 8, 8, Mia Martini 10, 10, 10!

Un'altra volta per parlare delle insidie del sessismo e della donna vista come oggetto ho proposto canzoni su temi forti al riguardo, e quelle dei cantautori paludati lasciavano impassibili i ragazzi, mentre Il silenzio della colomba dei Pooh, storia di una violenza sessuale detta su musica magnificamente coinvolgente, li ha scossi: una ragazza è scoppiata a piangere, ha detto di aver capito per la prima volta, grazie al pop, quanto è grande quel pericolo.

Raccontando invece Gaber, la poco nota canzone Gildo, che parla di ospedale e morte, era quella con più successo, perché rispondeva a domande che nel mondo di oggi sono tabù, e ricordo che permise a molti ragazzi di avere poi il coraggio di affrontare in casa la perdita di un nonno o di un genitore, di chiedere finalmente della malattia e della morte, realtà ineludibili che però sono bandite da ogni media odierno, e loro ci pensano, ma non hanno coraggio di chiedere.

Dunque, i ragazzi capiscono quando la musica -e vale per ogni cosa- è vera; quando è bella; capiscono temi anche difficili, grazie alla musica che aiuta le emozioni; e credetemi, capiscono anche quale musica è "più" bella di altre.

Un giorno, siccome chiacchieravamo di quanto faccio nelle scuole quando ne ho l'occasione, un taxista mi raccontò che era stanco di sentire suo nipote ascoltare rock mediocre di oggi, e lui gli aveva imposto di sentire con lui un LP dei Led Zeppelin... E il ragazzo aveva iniziato a cercare Zeppelin, Cream, Pink Floyd, eliminando dalle sue playlist certe robe tristi di oggi... Insomma, mi ha confermato il concetto sul campo!!!

Non abbiate dunque paura, di far loro ascoltare quello che colpevolmente la Tv (anche di Stato) ha rinunciato a far loro conoscere. E nel caso vogliate una mano, gli amici del Gomitolo sanno dove trovarmi.

Grazie infinite
Andrea

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